Deposito del 8 maggio 2009

senato.it :: Commissioni parlamentari

Ordine del giorno dell'Assemblea

Portale www.giustizia.it: Primo piano e le notizie

Comune di Livorno - Rete Civica Livornese

ANSA.it - Top News

Repubblica.it > Homepage

Il Sole 24 ORE - Norme e Tributi

Il Sole 24 ORE - Economia e Lavoro

Lettori fissi

mercoledì 1 dicembre 2010
Svolgendo la quotidiana opera di aggiornamento professionale che mi impone la lettura delle più recenti sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione ho avuto modo di esaminare la sentenza n°23835 pronunciata dalla Terza Sezione Civile della Suprema Corte il 21 ottobre scorso.
Premetto che, pur trattandosi di sentenza pronunciata in sede civile, ritengo che la stessa possa costituire utile spunto di riflessione soprattutto per coloro che, a vario titolo, si trovino implicati in procedimenti penali.
La pronuncia sopra richiamata infatti, pur attenendo a questioni civili connesse al legittimo esercizio del diritto di cronaca ed al parimenti doveroso diritto di replica, prende spunto dall'annosa questione inerente la pubblicazione di notizie giudiziarie allorchè il procedimento penale di riferimento si trovi ancora nella fase delle indagini preliminari e la successiva mancanza di tutela “mediatica” del soggetto allorchè il successivo esito del giudizio dovesse essere per lui favorevole.
Nel caso specifico era stata pubblicata la notizia secondo cui taluno era accusato di tentata corruzione ma, successivamente, gli si era negato il diritto di replica non dando corso alla sua richiesta di pubblicazione della notizia dell'avvenuta archiviazione del procedimento.
Pur dovendosi sottolineare che la sentenza della Corte di Cassazione che mi accingo a pubblicare ha sancito il diritto del cittadino a vedersi riconosciuto il diritto di replica, si deve riflettere sulla portata e l'utilità concreta di un simile diritto che, a mio avviso, risulta particolarmente sfuggente.
In primo luogo, per chiarire le ragioni della mia perplessità, si deve dar conto di quanto accade nella realtà dei fatti per come ho avuto modo di sperimentare esercitando la mia attività soprattutto in sede penale.
Per esperienza posso dire senza tema di smentita che, soprattutto in una piccola città, la pubblicazione della notizia circa la pendenza a carico di una determinata persona di un procedimento penale di particolare gravità non può che avere conseguenze devastanti sicuramente a livello personale, quasi sempre a livello familiare e che, qualche volta, coinvolgono anche la sfera lavorativa.
Immaginiamoci una persona accusata di aver compiuto abusi sessuali in una piccola cittadina.
In quel caso, ovviamente, la notizia sarebbe pubblicata con ampio risalto sui quotidiani locali e, altrettanto ovviamente non potrebbe che provocare fastidiosissimi danni alla vita di relazione dell'allora indagato con implicazioni anche sul suo luogo di lavoro.
Qualora la vicenda processuale, protrattasi magari per anni, dovesse concludersi con un'archiviazione o un'assoluzione senza che quest'ulteriore notizia fosse pubblicata si potrebbe rivendicare l'esercizio di quel diritto di replica di cui tratta la Corte di Cassazione anche se, a mio parere, il tutto non potrebbe sicuramente riparare alla “gogna mediatica” presofferta.
Mi spiego meglio, a mio avviso l'esercizio di tale diritto già così per come è disciplinato dalla legge non può certo definirsi quale utile strumento di tutela “riparatoria” a fronte del danno conseguito alla preventiva pubblicazione di determinate notizie.
A questo proposito, infatti, l'art. 8 Legge 8 febbraio 1948 n°47 prevede quanto appresso:”Il direttore o, comunque il responsabile della pubblicazione è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche... sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono.
Per i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce.
Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate...” .
Dalla lettura della norma appena richiamata quindi si desume che l'esercizio di tale diritto, anche ove concesso, si concreta nella pubblicazione di 30 (trenta) righe che abbiano le medesime caratteristiche tipografiche dell'articolo cui la persona intende replicare.
Già da questo sorge spontanea una domanda: può ritenersi efficace il diritto di replica concentrato in trenta righe scritte con carattere “Times New Roman” grandezza 8 pubblicate a tre/cinque anni dall'avvenuta pubblicazione per più giorni di articoli che hanno riempito intere pagine di giornale con tanto di titoli scritti con carattere “Times new Roman” grandezza 28, evidenziati in grassetto e riportati nella “civetta” posta di fronte alle edicole? Francamente credo di no.
Intendiamoci il problema di cui parlo non è di semplice soluzione tant'è vero che io per primo visto il lavoro che faccio sono soggetto ad una sorta di “sdoppiamento della personalità” in cui da un lato sono un semplice cittadino che, confidando nell'attività della Magistratura, pretende che gli si garantisca il diritto ad essere informato senza dover attendere i tempi spesso “biblici” di compimento delle indagini preliminari e, dall'altro, sono un avvocato che ogni volta che trapelano notizie in palese violazione del segreto istruttorio nell'ambito dei procedimenti sui quali è chiamato ad operare si irrita non poco dal momento che, totalmente all'oscuro di ogni risultanza acquisita dagli inquirenti, è costretto ad uscirsene con frasi di circostanza quali “Prima di potermi esprimere ho necessità di esaminare compiutamente gli atti”; “ Attualmente mi sembra prematuro esprimemi su una vicenda che, per forza di cose, non conosco”; “Io ed il mio assistito attendiamo con fiducia che i Magistrati compiano tutte le verifiche del caso” etc. etc.
A questo punto credo di poter dire che il problema, ben lungi dall'essere di carattere strettamente giuridico, sia soprattutto culturale e professionale per cui la soluzione deve esser ricercata al di fuori delle aule dei tribunali.
In questo senso si deve a mio avviso prendere atto che i lettori sono molto più interessati alle disgrazie piuttosto che ai successi altrui e, seguendo questa logica, i giornali ed i giornalisti rischiano sovente di uniformarsi a tale dato di fatto ritenendo anch'essi del tutto privo di interesse l'aspetto connesso alle vicende umane vissute da chi, suo malgrado, si è trovato a doversi difendere da imputazioni particolarmente infamanti.
Da quanto appena detto non può che conseguirne che, ove si ritenga condivisibile il contesto che ho descritto, non resta che ammettere il diritto all'informazione ed il diritto di difesa in caso di errori giudiziari possono bilanciarsi soltanto attraverso un'operazione culturale che tenda a riportare al centro delle cose la Persona. In altri termini, è il Giornalista (la maiuscola si badi bene non è un caso) che ogni volta può fare la differenza non limitandosi a concedere il diritto di replica ma, piuttosto, dimostrando di esser consapevole dell'enorme impatto del suo lavoro sulle vite altrui, essendo disposto ad ascoltare e pubblicare di sua iniziativa articoli veri e propri che possano consentire ai loro interlocutori di riacquisire la giusta dignità agli occhi dei lettori.
Di seguito, tratta dal sito all'URL http://www.altalex.com/index.php?idstr=11&idnot=12471, provvedo a pubblicare la pronucia della Corte di Cassazione dalla quale hanno tratto spunto i miei pensieri.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 24 novembre 2010, n. 23835
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1986, depositata il 28 giugno 2005, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Napoli, la quale ha respinto la domanda proposta da T.F., in proprio e quale rappresentante legale della s.r.l. Casa di cura Ospedale internazionale, contro C.M. G., S.E., e la s.p.a. Editoriale L'Espresso - rispettivamente autrice, direttore responsabile ed editrice del quotidiano **** - per ottenere il risarcimento dei danni a seguito della pubblicazione sul medesimo quotidiano di due articoli, l'uno in data **** e l'altro il ****, ritenuti diffamatori.
Il T. propone tre motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.
Resistono gli intimati con controricorso.
Motivi della decisione
1.- Conviene richiamare preliminarmente i fatti che hanno dato origine alla controversia.
Il 2 aprile 1993 il GIP presso il Tribunale di Napoli ha disposto la custodia cautelare in carcere del Dott. T.F., direttore della s.r.l. Casa di cura Ospedale internazionale, con l'accusa - formulata dal commissario straordinario della USL ****, Ca.
V. - di avere offerto a quest'ultimo la somma di L. 500 milioni per indurlo a non proporre appello contro un lodo arbitrale che ha condannato la USL a pagare alla Casa di cura L. 5 miliardi e mezzo, in rimborso di spese erogate agli assistiti.
Il **** il quotidiano ****, ha pubblicato un articolo a firma di C.S., dal titolo "Cade nella rete ex manager USL", ove il T. era indicato come uno dei due pentiti che avevano incastrato il funzionario.
Il giorno successivo altro articolo dal titolo "La truffa dei posti letto" riprendeva la vicenda, dicendo fra l'altro che "per non fare appellare il manager Ca. contro la sentenza il proprietario della clinica avrebbe offerto all'amministratore una mazzetta da 500 milioni, e che "quelli della Clinica cercavano di farsi pagare i ricoveri convenzionati per un numero di posti letto maggiore" rispetto a quelli di cui disponevano.
Nel settembre successivo il Ca. è stato arrestato con l'imputazione di concussione ai danni del T. ed il procedimento a carico di quest'ultimo è stato archiviato.
Rimasta senza esito la domanda di rettifica degli articoli già pubblicati, il T., in proprio e quale rappresentante della Casa di cura, ha chiesto il risarcimento dei danni per diffamazione e per mancata pubblicazione della rettifica, assumendo che, a seguito delle vicende di cui sopra, i funzionari della USL non hanno rinnovato la convenzione con la Clinica e questa ha visto ridotta la sua clientela, con rilevante calo del fatturato.
La Corte di appello ha motivato il rigetto delle domande con il fatto che, essendovi un interesse pubblico alla narrazione della vicenda, la pubblicazione era giustificata dal diritto di cronaca; che l'articolista si è attenuta alla verità dei fatti, così come essi all'epoca si presentavano, e che non ha trasceso la forma civile dell'esposizione.
Ha ritenuto giustificata anche la mancata rettifica, con la motivazione che i convenuti non erano obbligati a procedervi, poichè le pubblicazioni che si chiedeva di rettificare erano lecitamente avvenute.
2.- E' logicamente pregiudiziale l'esame del secondo e del terzo motivo, con cui il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2043 c.c., e art. 597 c.p., nonchè illogica e insufficiente motivazione, sul rilievo che - contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza impugnata - l'autrice dell'articolo ha imputato alla Clinica un fatto falso, cioè il ricevere - di pazienti oltre il numero dei letti disponibili ed il pagamento di rette di degenza relative a posti letto inesistenti, trascurando il fatto che le eccezioni sollevate dalla USL nel giudizio arbitrale concernevano posti letto effettivamente esistenti, ma non aventi diritto al rimborso perchè non convenzionati. Le pubblicazioni, pertanto, avevano imputato alla Casa di cura un comportamento disonesto e truffaldino, mentre la vertenza reale concerneva un mero illecito civile. Lamenta ancora che il titolo dell'articolo del 6 aprile "La truffa dei posti letto", è espressione tendenziosa, suggestiva e non rispondente ai principi di continenza espositiva.
2.1.- I due motivi sono inammissibili.
Essi attengono all'interpretazione del contenuto delle pubblicazioni ed alla valutazione della loro portata offensiva, questioni la cui delibazione è riservata alla discrezionalità della Corte di merito, la quale ha congruamente e logicamente motivato la sua decisione, tenendo conto dell'intero contenuto degli articoli, non solo delle frasi riportate nel ricorso.
Ha ritenuto che da essi si potesse chiaramente desumere che la controversia non riguardava posti letto inesistenti, poichè l'articolo del 6 aprile specificava trattarsi del pagamento "delle rette di degenza contestate, in quanto eccedenti il limite del convenzionamento". Ha specificato che gli illeciti facevano capo solo all'allegra gestione della USL; mai ha parlato di vendita di posti letto inesistenti o di mercato dei posti letto, ed ha prospettato l'ipotesi che le vicende processuali evolvessero verso una fattispecie di concussione anzichè di corruzione.
Ha perciò concluso - con valutazione congruamente e logicamente motivata - che l'intitolazione (indubbiamente forte) del secondo articolo non poteva essere riferita a comportamenti del T. e della Clinica, ma solo a quelli del responsabile della USL. Nè il ricorrente ha posto in evidenza altre frasi contenute negli artìcoli, idonee a dimostrare l'illogicità o l'insufficienza della suddetta motivazione.
3.- Il primo motivo, deducendo violazione della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 8, sulla stampa e art. 2043 c.c., lamenta che la Corte di appello abbia assolto i convenuti anche dall'addebito di non avere pubblicato la rettifica delle precedenti notizie, dopo l'archiviazione del procedimento per corruzione a suo carico, e censura la motivazione della Corte secondo cui, essendo risultata lecita la pubblicazione, non vi era ragione di accogliere la domanda di rettifica.
Afferma il ricorrente che la rettifica ha la funzione di consentire all'interessato una replica e costituisce oggetto di un diritto potestativo che spetta a chiunque si ritenga diffamato.
3.1.- Il motivo è fondato.
La L. n. 47 del 1948, art. 8, sulla stampa - così come modificato dalla L. 5 agosto 1981, n. 416, art. 42, - impone al responsabile del periodico di pubblicare gratuitamente le rettifiche dei soggetti "ai quali siano stati attribuiti atti....da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purchè...le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale", e sempre che siano contenute entro dati limiti di spazio.
Si tratta di un diritto che la legge attribuisce all'interessato di vedere ristabilita la verità dei fatti qualora, tramite la stampa, gli siano attribuiti comportamenti, o lo si coinvolga in vicende pubbliche o personali, in termini difformi dalla realtà o che egli ritenga lesivi dell'onore, della reputazione od anche solo dell'identità personale.
L'attuazione di un tale diritto non è rimessa alla discrezionale valutazione del direttore del mezzo, ma deve avere corso, tramite la pubblicazione della rettifica, in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti con i soli limiti stabiliti dalla legge stessa (contenuto non penalmente illecito della rettifica; non eccedenza dai limiti di spazio di cui alla L. n. 416 cit., art. 8, comma 4) (cfr. Cass. civ. Sez. 3^, 24 aprile 2008 n. 10690).
Nella specie è indubbio che l'imputazione di corruzione sia oggettivamente lesiva della dignità della persona e che tale venga giustificatamente ritenuta dall'interessato.
E' altresì indubbio che, all'esito delle indagini, l'addebito di concussione al T. - riportato dal quotidiano La Repubblica nell'aprile precedente - è risultato non rispondente al vero, pur se lecitamente pubblicato in precedenza, sulla base delle conoscenze acquisite a quella data.
Ricorrevano quindi gli estremi previsti dalla legge per poter formulare la richiesta di rettifica, che il direttore del periodico era tenuto ad accogliere, salvo che avesse dimostrato il ricorrere di alcuna delle circostanze in presenza delle quali la legge autorizza a non dare corso alla domanda.
La circostanza menzionata dalla sentenza impugnata, cioè la liceità della pubblicazione della notizia, è irrilevante, nei casi in cui le notizie pubblicate risultino successivamente non veritiere, come nel caso di specie.
Vale a dire, allorchè la liceità si ricolleghi non alla verità oggettiva della notizia, ma a quanto di tale verità emerge alla data della pubblicazione (c.d. verità putativa), in forza della scriminante del diritto di cronaca, detta liceità non può considerarsi di ostacolo al diritto dell'interessato di ristabilire, tramite la rettifica, l'effettiva realtà delle cose che sia stata successivamente accertata.
Al contrario, proprio il fatto che l'esercizio del diritto di cronaca può autorizzare la pubblicazione di vicende di cui non sia stata ancora accertata la completa corrispondenza al vero, impone di dare la più ampia possibilità di espressione al diritto di rettifica dell'interessato, affinchè l'interesse pubblico alla conoscenza immediata dei fatti non venga a sacrificare ingiustificatamente ed oltre misura l'interesse individuale a che siano pubblicate solo le notizie incontestabilmente accertate come vere.
L'eccezione dei resistenti secondo cui il motivo di ricorso sarebbe irrilevante perchè inidoneo ad influire sul dispositivo della sentenza impugnata deve essere disattesa.
Non si può a priori escludere, infatti, che la tempestiva pubblicazione della rettifica avrebbe potuto limitare i danni conseguenti all'iniziale pubblicazione, e gli odierni ricorrenti hanno dedotto il fatto fra le premesse idonee a giustificare la loro richiesta di risarcimento.
5.- In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, affinchè decida la controversia uniformandosi ai seguenti principi di diritto:
"La L. n. 47 del 1948, art. 8, sulla stampa, così come modificato dalla L. 5 agosto 1981, n. 416, art. 42, attribuisce al soggetto il diritto di rettifica delle notizie pubblicate sui mezzi di informazione, in tutti i casi in cui si tratti di notizie non vere o che l'interessato ritenga lesive dei propri diritti all'onore, alla reputazione o all'identità personale.
L'attuazione del diritto alla rettifica non è rimessa alla discrezionale valutazione del direttore del mezzo di informazione, ma deve avere corso in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti, con i soli limiti stabiliti dalla legge stessa.
"L'accertata liceità della pubblicazione della notizia di cui si chiede la rettifica - trattandosi di notizia rispondente alle conoscenze acquisite fino a quel momento e ricorrendo gli estremi del diritto di cronaca - non fa venir meno l'obbligo di pubblicare la rettifica dell'interessato, qualora la relativa domanda sia diretta a far valere l'avvenuto accertamento dei fatti in termini diversi da quelli in precedenza pubblicati, dovendo la verità reale prevalere sulla verità putativa". 6.- Il giudice di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
martedì 7 settembre 2010
A prescindere dall'ovvio disgusto suscitato dalla sentenza che ha condannato a morte Sakineh -caso sul quale in questo momento giustamente si deve tener desta l'attenzione di tutti per impedire l'esecuzione della lapidazione- mi chiedo tuttavia perchè questo tipo di mobilitazioni "di Stato" non si verifichino allorchè altri paesi compiano lo stesso abominio giuridico. Il punto è che, a mio avviso, qualunque sentenza che preveda la morte dell'imputato dovrebbe destare ripugnanza a prescindere dallo Stato che la pronuncia e dalle modalità concrete di inflizione della pena e, per questo motivo, trovo assolutamente ipocrita il fatto che oggi il Ministro degli Esteri si mobiliti auspicando ulteriori sanzioni nei confronti del regime iraniano mentre, al contempo, si tenta di stringere rapporti di partnership economica sempre più stretti con paesi quali la Cina o gli Stati Uniti.
venerdì 14 maggio 2010
In questi ultimi mesi mi è capitato con maggior frequenza di dover assistere persone indagate in procedimenti penali per aver guidato in stato di ebbrezza.
In questi casi, stante la gravità delle sanzioni amministrative accessorie comminate in punto di sospensione della patente nonché -nei casi più gravi- di sequestro e successiva confisca del mezzo, ben si comprende come le preoccupazioni degli indagati si incentrino pressochè esclusivamente su tali aspetti con conseguente disinteresse alla vera e propria sanzione penale che, perlatro, nella maggior parte dei casi viene “neutralizzata” dell'istituto della sospensione condizionale.
A questo proposito, posto che l'art. 186 secondo comma lettera c) del codice della strada -applicabile al soggetto cui è stato riscontrato un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro- prevede che in caso di condanna pronunciata nel procedimento penale si proceda a confisca del veicolo “salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato” ritengo utile “socializzare” il contenuto della sentenza n.10688 pronunciata il 18 marzo 2010 dalla IV° Sezione della Corte di Cassazione e l'interessante nota redatta in materia dal Dott. Alessandro Calò.
Il tutto, come potranno constatare coloro che procederanno alla lettura della sentenza e della nota sopra richiamate, verte in punto di legittimità del sequestro e successiva confisca del veicolo condotto dal soggetto trovato alla guida in stato di ebbrezza e da quest'ultimo utilizzato sulla base della preventiva stipulazione di un contratto di leasing.
In altri termini, la vettura condotta dal soggetto era stata acquistata con contratto di leasing.
In tali ipotesi, come ormai tutti sanno, la proprietà del mezzo permane in capo alla società finanziaria e, solo dopo il pagamento dell'ultima rata, si ha il trasferimento di proprietà in capo all'utilizzatore.
Si tratta quindi di capire se, a fronte della disciplina di diritto civile in tema di proprietà e della locuzione riportata al secondo comma lettera c) dell'art. 186 del codice della strada ( “salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato”), in questi casi si possa legittimamente procedere al sequestro e successiva confisca del veicolo.
Francamente debbo ammettere che, qualora fossi stato chiamato a rispondere ad un tal quesito senza aver modo di procedere ad un più attento approfondimento della terminologia utilizzata nel codice della strada e, soprattutto, dalla ratio dell'istituto in parola (confisca) in riferimento alle condotte contestate (ipotesi più gravi della guida in stato di ebbrezza), molto probabilmente mi sarei sbagliato.
Infatti, tenendo conto unicamente del dato di fatto secondo cui la società finanziaria può definirsi in astratto estranea all'utilizzatore e che, sicuramente, il diritto di proprietà del mezzo è ascrivibile alla stessa, esistono svariate possibilità di esser indotti in errore.
Ad una più attenta disamina, però, non possono sfuggire le considerazioni che seguono.
Il codice della strada non consente di procedere a confisca del mezzo qualora appartenga a soggetti estranei a colui che è stato colto in flagranza di reato ma, nel caso di specie, l'estraneità è esclusa proprio dalla sussistenza del contratto di leasing.
Secondariamente, le ragioni per le quali si è ritenuto necessario introdurre la sanzione amministrativa accessoria della confisca oltre che da finalità di tutela della collettività in ordine al possibile reiterarsi della condotta criminosa (ti confisco il mezzo in maniera tale che tu non possa in futuro guidare di nuovo in stato di grave ebbrezza esponendo i consociati al pericolo della verificazione di gravi incidenti stradali) sono costituite da finalità generalpreventive (prevedo la confisca affinchè gli automobilisti, temendo gli effetti di tale istituto, si astengano in futuro dal commettere il reato).
Ecco quindi che, considerato quanto appena argomentato, risulta assai arduo contestarela legittimità del sequestro e della successiva confisca di veicoli acquistati con contratto di leasing.
Di seguito si riportano integralmente sia il testo della citata sentenza n.10688 pronunciata dalla Corte di Cassazione il 18 marzo 2010, sia la nota redatta dal Dott. Alessandro Calò.

Corte di Cassazione Sez. Quarta - Sent. del 18.03.2010, n. 10688
Osserva
Con decreto del 10 giugno 2009 il G.I.P. presso il Tribunale di Fermo convalidava il sequestro preventivo della vettura Audi Q7 tg. (…) nella disponibilità di D. G. E. M. , in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186, secondo comma, del codice della strada.
Avverso detto provvedimento, il D. G. presentava istanza di riesame basata sull’asserita non confiscabilità del veicolo, in quanto nella disponibilità del D. G. in virtù di contratto di leasing e quindi intestato a terzi; l’istante prospettava altresì l’insussistenza del “periculum in mora” per essergli stata ritirata, e quindi sospesa, la patente di guida.
Il Tribunale di Fermo - in funzione di giudice del riesame - rigettava il gravame rilevando che: 1) a nulla rilevava che il veicolo fosse intestato a terzi (nella specie, alla “Banca I.”), essendo stato accertato che l’indagato aveva la disponibilità del veicolo stesso, e trattandosi di una “res” in evidente rapporto di strumentalità rispetto al reato: di tal che l’auto, se lasciata nella libera disponibilità dell’indagato, avrebbe comportato pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato, ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti; 2) quanto al “periculum in mora”, la sospensione della patente, anche perché misura temporanea, non avrebbe di certo impedito la reiterazione di analoghe condotte.
Ricorre per cassazione l’indagato, a mezzo del difensore, reiterando la tesi della non confiscabilità del bene perché appartenente a terzi, e sostenendo che la sospensione della patente di guida avrebbe fatto venir meno il “periculum in mora”.
All’odierna udienza, il difensore dell’indagato ha rappresentato che il contratto di leasing è stato risolto e che quindi l’auto in questione è rientrata nella piena ed esclusiva disponibilità della “Banca I.”.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
Tenuto conto della natura e degli effetti di un contratto di leasing, non v’è dubbio che un bene detenuto in forza di tale contratto “appartiene” al soggetto al quale è stata attribuita la materiale disponibilità del bene stesso: ed invero, “appartenenza” non significa astrattamente proprietà di una “res”, ma sostanzialmente diritto di goderne e disporne sulla base di titolo che esclude i terzi (caratteristica propria del leasing). Muovendo da tale presupposto, appare evidente dunque la legittimità del sequestro di un veicolo il cui conducente, sorpreso alla guida di quel veicolo in stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186, comma secondo, lett. c), del codice della strada, ne abbia la disponibilità in forza di un contratto di leasing: anche in tal caso, infatti, non può revocarsi in dubbio la sussistenza del “periculum in mora” derivante dalla disponibilità del veicolo da parte del soggetto sorpreso a guidarlo in condizioni ritenute pericolose per la sicurezza della circolazione; la stessa società di leasing, per riavere la materiale disponibilità di un veicolo concesso a terzi in virtù di contratto di leasing, dovrebbe dimostrare che il contratto é cessato e che, conseguentemente, é sorto il suo diritto alla restituzione.
Correttamente il Tribunale del riesame ha poi ritenuto, con argomentazioni assolutamente condivisibili, del tutto irrilevante la sospensione della patente di guida del D. G. ai fini del “periculum in mora”.
Donde la manifesta infondatezza delle dedotte censure.
Ai rilievi che precedono, pur di carattere decisivo ed assorbente, deve inoltre aggiungersi, “ad abundantiam”, che all’odierna udienza (cfr. verbale di udienza) il difensore dell’indagato, nell’illustrare la tesi difensiva, insistendo per l’accoglimento del ricorso, ha precisato che il contratto di leasing è stato risolto e l’auto in sequestro è rientrata nella piena disponibilità, formale e sostanziale, della società “Banca I.”: orbene, è, dunque, anche cessato qualsiasi interesse dell’indagato alla restituzione dell’auto stessa. Sarà onere della predetta società - in quanto soggetto “estraneo al reato” - far valere eventualmente le sue ragioni nella sede opportuna.
Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00. 
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria il 18.03.2010

Nota redatta dal Dott. Alessandro Calò tratta dal sito www.altalex.it all'URL

E’ legittimo il sequestro di un veicolo, alla cui guida il conducente è stato sorpreso in stato di ebbrezza ex art. 186, comma 2, lett. c) del C.d.S., detenuto in forza di un contratto di leasing.
Così ha stabilito la sentenza 18 marzo 2010 n. 10688, con la quale la IV Sezione della Suprema Corte è tornata ad interessarsi della materia attinente all’applicazione della sequestro prodromico alla successiva confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato sopra menzionato.
Nel caso di specie l’imputato presenta istanza di Riesame avverso la pronuncia del G.I.P. con cui viene convalidato il sequestro di una vettura, asserendo la non confiscabilità in quanto bene nella disponibilità di una Banca in virtù di un contratto di leasing, nonché l’insussistenza del “periculum in mora”.
Il Tribunale della Libertà rigetta il gravame e l’imputato ricorre in Cassazione. Tuttavia, la Corte, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, afferma che il concetto di “appartenenza” del bene al soggetto al quale è attribuita la materiale disponibilità dello stesso non implica esclusivamente una mera proprietà astratta della “res”, bensì, anche, un diritto al suo godimento, con la ovvia conseguenza di escludere i terzi.
Difatti, come rilevano gli ermellini, il bene detenuto in forza di tale contratto “appartiene” al soggetto al quale è stata attribuita la materiale disponibilità del bene stesso, per cui “non può revocarsi in dubbio la sussistenza del “periculum in mora” derivante dalla disponibilità del veicolo da parte del soggetto sorpreso a guidarlo in condizioni ritenute pericolose per la sicurezza della circolazione”
Conseguenza di tale asserzione è che, al fine di ottenere la restituzione del bene in parola, dovrà essere la società di leasing – quale soggetto estraneo al reato – a dimostrare la cessazione del contratto.
Brevi cenni sul concetto di appartenenza del bene e di estraneità al reato. Due precedenti giurisprudenziali.
In tema di guida sotto l’effetto di alcool l’art. 186, comma 2, C.d.S. prevede l’applicazione della confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea; allo stesso modo l’art. 240 c.p. esclude l’applicazione della misura se i beni appartengano a terzi, estranei al reato, di modo che le cose devono essere restituite e non potranno essere confiscate. Sorge, quindi, una riflessione circa l’interferenza nel provvedimento di confisca di beni appartenenti a persona estranea al reato, di talché esiste un obbligo del giudice di accertare che i terzi non vantino un diritto di proprietà incompatibile con la confisca, ovvero di verificare la non «appartenenza» della cosa al terzo «estraneo al reato».
Su quest’ultima locuzione, si è più volte espressa la giurisprudenza della Cassazione penale, evidenziando, innanzitutto, come non abbia nulla a che vedere con l’estraneità al procedimento penale: è estraneo al reato «chi non ha nessun collegamento – diretto o meno – con la consumazione del fatto, o chi non ha partecipato o concorso in alcun modo, ancorché non punibile e non colui che, pur implicato nel reato, sia sfuggito o non sia ancora sottoposto o venga separatamente sottoposto a procedimento penale»[1]. Per quanto riguarda il concetto di «appartenenza», non vi è compreso solo il diritto di proprietà ma anche i diritti reali di garanzia, i quali fanno sì che il bene passi dalla disponibilità del proprietario a quella del titolare della garanzia, per mezzo del quale soddisfa le sue pretese; di conseguenza la cosa oggetto di garanzia non potrebbe, allo stesso tempo, essere oggetto di un fatto di reato, né di confisca[2].
Pertanto, entra in gioco un rapporto di inerenza tra la cosa e l’illecito, ossia una relazione diretta, oggettiva di “asservimento”, nel senso che la prima deve risultare oggettivamente collegata al secondo da un nesso strumentale, in mancanza della quale viene meno la misura ablativa.
Orbene, per quanto concerne più specificatamente la materia in esame – sulla scia di una continua integrazione delle disposizioni del codice penale da parte di numerose leggi speciali – sarebbe opportuno rammentare due recentissime pronunce della Suprema Corte con le quali si è ribadita una impostazione ermeneutica oramai consolidata attinente ai concetti cui si è fatto innanzi cenno ed alla quale la sentenza n. 10688/10 non può non essersi accostata.
Nella prima ipotesi[3] posta al suo esame la Corte rigetta il ricorso volto alla illegittimità di un provvedimento ex art. 186 C.d.S. e quindi alla restituzione di una autovettura sequestrata a seguito del reato di cui si discute avanzata da un soggetto diverso dall’imputato – la moglie – nel relativo procedimento penale, ma comproprietario dello stesso bene, a nulla rilevando la sua estraneità al reato, né tantomeno la stipulazione di un contratto di finanziamento per il suo acquisto. Similmente, nel secondo caso[4], la Suprema Corte conferma la legittimità del provvedimento su ricorso presentato dal medesimo imputato sul presupposto che l’autovettura fosse in comproprietà di altra persone (la madre del ricorrente).
Orbene, gli elementi a supporto di entrambi i ricorsi non sono stati ritenuti ostativi al sequestro preventivo.
Invero, con motivazioni pressoché analoghe nelle due ipotesi, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui l’appartenenza a persona estranea al reato è tale solo se il veicolo risulta nella proprietà esclusiva del soggetto interessato alla restituzione, di talché in caso di comproprietà del mezzo sequestrato e confiscato al soggetto imputato del reato di cui all’art. 186 C.d.S., la stessa è esclusa poiché “la presunzione di pericolosità derivante dall’uso del mezzo rimane integra”.
Invero, secondo i Cassazionisti, tale “presunzione si attenua solamente nel caso in cui il bene appartenga a persona totalmente estranea”, stante la finalità della misura cautelare volta alla confiscabilità della quota di proprietà dell’imputato “ove evitare che il bene sia disperso e che, ritornando nella disponibilità dei comproprietari, possa essere nuovamente usato dal trasgressore, fermo restando la possibilità del comproprietario non imputato di rivalersi sul prezzo ricavabile dalla vendita della autovettura”.
Ciò ha consentito di statuire che, se dal certificato di proprietà della vettura risulta che la stessa è intestata a due soggetti, di cui uno è imputato del reato di cui all’art. 186 C.d.S., non si rinviene alcun elemento che dimostri l’esclusiva proprietà in capo all’altro non imputato, per cui deve essere negata la qualifica di persona estranea al reato e, pertanto, la restituzione del bene.
Pertanto, anche nelle ipotesi appena illustrate, cosi come in quella oggetto della sentenza n. 10688/10, la Suprema Corte ritiene che il disposto di cui all’art. 186 C.d.S. abbia la finalità di evitare che, con la restituzione del bene sequestrato, lo stesso sia disperso e possa, altresì, ritornare nella disponibilità del soggetto imputato; da qui la legittimità del provvedimento che conferma la ratio della norma in esame.
Invero a parere degli ermellini, se da tale disposizione si desume la natura obbligatoria della confisca, l’ulteriore richiamo all’art. 240, comma 2, c.p. impone che nell’ipotesi di sequestro ex art. 321, comma 2, c.p.p. sussiste una presunzione di legge circa la ravvisabilità del “periculum in mora”, con l’ovvia conseguenza che lo stesso non deve essere accertato caso per caso.
lunedì 1 marzo 2010
Talvolta nell'esercizio della professione che svolgo ho avuto modo di assistere clienti che, per quanto formalmente indagati e/o imputati per fatti compiuti in danno di appartenenti delle Forze dell'Ordine, sono stati poi assolti a seguito dell'accertamento delle condotte arbitrarie subite proprio da quei “servitori dello Stato” che, originariamente, rivestivano la qualifica di presunte persone offese.
Ad onor del vero fattispecie quali quelle cui sopra accennavo sono senza dubbio numericamente assai minori rispetto a quelle in cui ho potuto riscontrare la fondatezza delle accuse mosse ai miei rappresentati ma, poiché ritengo che la stima ed il rispetto dovuto agli appartenenti delle Forze dell'Ordine sia direttamente proporzionale al loro spirito di abnegazione ed al rispetto che essi stessi dimostrano nei confronti dei cittadini, sono convinto che ogni singolo caso di prevaricazione debba esser segnalato e stigmatizzato per un duplice ordine di motivi: in primo luogo per dimostrare in maniera inconfutabile che determinati episodi purtroppo accadono e, secondariamente, per far sì che, una volta resi noti determinati fatti, nessuno possa reiterarli sentendosi al di sopra della legge.
A questo proposito, dal momento che ho avuto modo di esaminare una sentenza della Corte di Cassazione che si è occupata di un episodio di vero e proprio abuso perpretato da un maresciallo dei Carabinieri, ritengo utile condividere i principi espressi dalla Suprema Corte e gli istituti giuridici connessi anche perchè, essendosi trattato di una perquisizione domicilare del tutto illegittima, può essere utile per tutti capire come, quando e perchè le Forze dell'Ordine possono introdursi nelle abitazioni senza che vi sia alla base un provvedimento del Giudice.
Di seguito, quindi, riporto la sentenza n°48552 pronunciata dalla Sez. Sesta della Corte di Cassazione il 18 dicembre del 2009; gli articoli 13 e 14 della Costituzione e l'art. 41 del
Regio Decreto 6 maggio 1940 n. 635 (c.d. Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza)


Corte di Cassazione Sez. Sesta - Sent. del 18.12.2009, n. 48552

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza 18.10.2005, con cui il Tribunale di Como aveva condannato il P. alla pena di otto mesi di reclusione per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale e per quello (aggravato ex art. 61 c.p., n. 2, e, perciò, procedibile d’ufficio) di lesioni personali nei confronti di un maresciallo dei Carabinieri e di due carabinieri della Stazione CC. di Pognana Lario.

2. Risulta dalla sentenza impugnata che l’ufficiale giudiziario S.A., recatosi presso l’indirizzo di P.G. per notificargli una citazione per convalida di sfratto, aveva, tramite citofono, comunicato lo scopo della visita, ricevendone il rifiuto di aprire il portone d’ingresso e l’invito ad andare via, con espressioni anche volgari.

Intervenuto a seguito di telefonata del S., il maresciallo dei CC. G.G.B. (in borghese, accompagnato da altri due carabinieri in divisa) saliva al piano d’abitazione del P., bussava, si qualificava e invitava ad aprire la porta, ottenendo dalle persone che erano in casa un rifiuto e la dichiarazione che la porta sarebbe stata aperta su mandato di un magistrato.

“Alla fine, il m.llo G., che nel frattempo aveva chiesto rinforzi, aveva intimato, ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41 (T.U.L.P.S.), di aprire la porta entro un certo tempo, altrimenti l’avrebbe sfondata per la ricerca di armi. La porta era restata chiusa, ma, dopo poche spallate, aveva ceduto ed i Carabinieri si erano trovati di fronte un uomo, con le braccia in alto, che gridava come un forsennato: andate via, non potete far questo, lei chi è, come si permette di accedere nel mio appartamento, lei non sa chi sono io, la faccio trasferire, le faccio perdere la Tenenza del comando”, o qualcosa del genere; poi vicino all’altro Carabiniere, che era in divisa, Lei si metta sugli attenti, mi saluti, perchè io sono un suo superiore”.

Escusso a dibattimento ex art. 210 c.p.p., (essendo intervenuta archiviazione della denuncia penale proposta dal P.), il maresciallo G. - secondo quanto scrivono i giudici d’appello - aveva precisato di avere “sospettato la perpetrazione di qualche reato e si era assunta la responsabilità di vedere che vi fosse in casa, anche sfondandone la porta d’ingresso; aveva comunicato che intendeva procedere alla perquisizione per la ricerca di armi e aveva avvisato il P. della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, ma lui si era puntellato tra noi e il resto dell’appartamento e, non appena qualcuno aveva cercato di entrare in contatto con lui, aveva cominciato a sferrare gomitate ed anche calci su di noi”.

Il teste aggiunse che “la confusione era tale che a fatica l’uomo era stato ammanettato”.

3. Avverso la sentenza ricorre il difensore dell’imputato, deducendo, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), vizio di motivazione e inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4, per avere i giudici di merito escluso la sussistenza della causa di non punibilità della reazione ad atto arbitrario del pubblico ufficiale.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

5. Il R.D. n. 773 del 1931, art. 41, richiamato dall’art. 225 delle norme di coordinamento c.p.p., attribuisce agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria il potere di perquisizione “in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione” soltanto allorché “abbiano notizia, anche se per indizio, dell’esistenza di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunziate o non consegnate o comunque abusivamente detenute”.

Osserva il Collegio che tale norma, al di là delle intenzioni del legislatore che l’introdusse nell’ordinamento giuridico, non ha mai conferito alla polizia giudiziaria un potere senza limiti e, tanto meno, un potere ad libitum dell’agente che procede, bensì il dovere di immediata attivazione in presenza di un determinato presupposto: la notizia, anche se per indizio, dell’esistenza di armi.

Tale avvertenza va sottolineata, a maggior ragione nello Stato costituzionale di diritto, introdotto dalla Costituzione repubblicana, in cui l’inviolabilità del domicilio privato è presidiata da garanzia costituzionale come diritto fondamentale della persona, con espresso divieto di eseguire perquisizione domiciliare “se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale” (art. 14 Cost., comma 2).

Pur considerando che la tutela accordata alla libertà di domicilio non è assoluta, ma trova dei limiti stabiliti dalla legge ai fini della tutela di preminenti interessi costituzionalmente protetti, come emerge dalle stesse disposizioni dell’art. 14 Cost., e tenendo in conto l’innegabile esigenza di porre gli organi di polizia giudiziaria in grado di provvedere con prontezza ed efficacia in ordine a situazioni (quali la detenzione clandestina o comunque abusiva di armi, munizioni o materie esplodenti) idonee, per loro stessa natura, a esporre a grave pericolo la sicurezza e l’ordine sociale, va evidenziato che la previsione costituzionale, nell’introdurre la riserva di legge per derogare alla regola dell’inviolabilità del domicilio, in stretto collegamento con la libertà personale, impone all’interprete un’interpretazione rigorosa dell’art. 41 R.D. cit., da cui sia bandita qualsiasi libera iniziativa e valutazione discrezionale degli organi di polizia giudiziaria e negata la possibilità che la perquisizione possa essere effettuata sulla base di un mero sospetto (che può trarre origine anche da un semplice personale convincimento), essendo sempre necessaria l’esistenza di un dato oggettivo che costituisca “notizia, anche per indizio”, il quale, per sua natura, deve ricollegarsi ad un fatto obbiettivamente certo o a più fatti certi e concordanti tra loro (v. Corte Cost., in particolare le sentenze nn. 173/1974 e 261/83 e l’ordinanza n. 332/2001).

Al di fuori di tale presupposto, la perquisizione domiciliare è non soltanto illegittima, ma anche oggettivamente arbitraria, sconfinando nell’indebita incisione della libertà domiciliare, tutelata per Costituzione nei confronti di chiunque, anche e innanzitutto nei confronti del potere pubblico.

6. Nel caso in esame, non soltanto mancava qualsiasi oggettivo indizio di notizia che, in casa del P., esistessero abusivamente armi, come chiaramente emerge dalla narrazione della vicenda contenuta nella sentenza impugnata, in cui si riferisce dei “sospetti” del pubblico ufficiale, ma l’evocazione dell’art. 41, citato T.U.L.P.S. si appalesa, all’evidenza, come un mero pretesto, utilizzato dal maresciallo G., per sfondare la porta senza che esistessero i presupposti di legalità per esercitare, per di più con modalità violente, il potere di perquisizione, conferito dall’ordinamento a tutela dell’incolumità pubblica, e non certo allo scopo di riaffermare una primazia di potere di fronte al legittimo, per quanto pervicace e testardo, diniego opposto dal P. non soltanto all’ufficiale giudiziario, ma anche al maresciallo del Carabinieri.

Mette conto, peraltro, sottolineare che già prima dello sfondamento della porta l’azione dell’ufficiale giudiziario e dei carabinieri intervenuti in suo ausilio appare eccessiva e sproporzionata rispetto alla condotta del P.

La reiterata insistenza dell’ufficiale giudiziario nel pretendere di consegnare materialmente la citazione per convalida di sfratto nelle mani proprie del destinatario, nonostante il rifiuto da lui opposto, non trova fondamento giuridico (e tanto meno legittimava in alcun modo l’intervento della polizia giudiziaria), essendo espressamente previsto, in tema di notificazione di atti, che “se il destinatario rifiuta di ricevere la copia, l’ufficiale giudiziario ne da atto nella relazione, e la notificazione si considera fatta in mani proprie” (art. 138 c.p.c., comma 2).

7. Ritiene, pertanto, il Collegio che la condotta del P., contestata come resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), fu causata dal comportamento arbitrario tenuto dell’ufficiale di polizia giudiziaria, eccedente dai limiti delle attribuzioni istituzionali, perchè caratterizzato da un macroscopico sviamento rispetto allo scopo di pubblico interesse per il quale è dall’ordinamento previsto l’esercizio di poteri autoritativi, sicché deve trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dalla L. 15 giugno 2009, n. 94, art. 1, comma 9, che ha reintrodotto, sotto l’art. 393 bis c.p., la causa di non punibilità già prevista dal D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, art. 4.

In linea con quanto questa Corte ha avuto modo di affermare, infatti, una perquisizione, che incide sull’inviolabilità del domicilio, presidiata da garanzia costituzionale, ove sia eseguita pretestuosamente, e quindi consapevolmente, effettuata ai sensi dell’art. 41 T.U.L.P.S., in mancanza di oggettivo indizio di esistenza di armi, costituisce, oggettivamente per offensività e soggettivamente per vessatorietà, atto arbitrario del pubblico ufficiale (v. Cass. n. 5564/1996, Perrone).

8. Per il delitto di lesioni personali le parti offese non hanno presentato querela e si proceduto d’ufficio in forza della previsione di cui all’art. 582 c.p.p., comma 2, art. 585 c.p.p., comma 1, e art, 576 c.p.p., comma 1, n. 1, essendo stata contestata l’aggravante del nesso teleologico (art. 61 c.p., n. 2).

Trattasi di aggravante di natura soggettiva, che si fonda sulla maggiore pericolosità di chi, pur di attuare il suo intento criminoso, non esita a compiere un reato mezzo per eseguirne un altro. Detta circostanza deve essere conosciuta dall’agente e deve rientrare nella rappresentazione dell’evento. Per la sua sussistenza è necessaria la prova che la volontà dell’agente, al momento della commissione del reato-mezzo (nella specie lesioni personali) era diretta alfine di commettere il reato-scopo (resistenza a pubblico ufficiale), scopo che deve essere già presente nella mente dell’agente con chiarezza tale da consentire l’identificazione della sua fisionomia giuridica (cfr. Cass. n. 4751/1989, Costa).

Rileva il Collegio che nel caso di specie tale prova manca del tutto, apparendo invece che nel P. mancava sia la volontà sia la rappresentazione dell’aggravante, mirando il suo intento e la sua condotta unicamente a reagire a quello che, soggettivamente, egli considerava un intollerabile sopruso e, oggettivamente, costituì un atto arbitrario.

Esclusa, perciò, la contestata aggravante, va constatata l’improcedibilità dell’azione per difetto di querela.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, con riferimento al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, trattandosi di persona non punibile ai sensi dell’art. 393 bis c.p., e, con riferimento al delitto di lesioni personali, esclusa la contestata aggravante, per difetto di querela.
Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2009


Articolo 13 Costituzione
La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria [cfr. art. 111 c. 1, 2] e nei soli casi e modi previsti dalla legge [cfr. art. 25 c. 3].
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalid.a nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà [cfr. art. 27 c. 3];.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.


Articolo 14 Costituzione
Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.


Regio Decreto 6 maggio 1940, n. 635
 
Art. 41: Gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro.
mercoledì 13 gennaio 2010
Qualche mese fa ho avuto modo di leggere una sentenza che mi è rimasta in testa e che, nel tempo, mi ha portato a sviluppare alcune considerazioni su di un argomento assai delicato -rapporti tra coniugi separati allorchè gli stessi abbiano comunque in comune figli minori- che intendo condividere.
Si tratta della sentenza n°27995 pronunciata dalla Corte di Cassazione l'8 luglio 2009 in cui si sancisce la penale responsabilità del genitore il quale, nominato affidatario del minore, si oppone al mantenimento dei rapporti di quest'ultimo con l'altro genitore.
Per quanto la decisione in oggetto sia senza dubbio apprezzabile, mi chiedo tuttavia se la stessa possa costituire il massimo della tutela giurisdizionale accordata ai minori o se, diversamente, si potrebbe e si dovrebbe fare di più.
Mi spiego meglio.
Se da un lato la Suprema Corte ha riconosciuto l'essenzialità della figura materna e paterna per il corretto sviluppo psico-fisico del minore, dall'altro, la penale responsabilità del genitore affidatario è stata dichiarata in relazione alla figura di reato di cui all'art. 388 c.p. ossia, per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice.
In buona sostanza quindi, a fronte della lesione di un diritto estremamente importante del minore quale quello a vedersi garantito un corretto sviluppo della personalità grazie all'intervento di entrambi i genitori, il genitore affidatario è stato condannato unicamente per non aver ottemperato ad una disposizione impartita dall'Autorità Giudiziaria.
Se questo è il quadro dei fatti ritengo che il tutto sia assolutamente insufficiente a fornire efficace ed effettiva tutela dei diritti dei minori.
Come si può reagire alla lesione di un diritto della persona ricorrendo ad una norma inserita nell'ambito dei delitti contro l'amministrazione della giustizia e che, per di più, prevede la pena alternativa della reclusione fino a tre anni (e quindi si va da un minimo di quindici giorni a tre anni) o della multa da 103,00 a 1.032,00 euro? Quale può essere la portata specialpreventiva di una norma del genere a fronte della indubbia ostinazione palesata da coniugi il cui unico interesse è quello di ferire ad ogni costo il proprio ex partner ricorrendo alla strumentalizzazione dei minori senza alcuno scrupolo?
Può dirsi sufficiente la tutela dei minori accordata in sede civile dall'Art. 709 ter c.p.p.?
A questo punto, considerato che l'istituto della separazione compirà proprio quest'anno i suoi primi quarant'anni e che ormai si può affermare con sufficente certezza l'assoluta incidenza dello stesso al mutamento radicale della società in genere e della famiglia in particolare, ritengo che, se si vuole fornire piena ed effettiva tutela dei diritti dei figli minori di genitori separati è necessario procedere ad una riforma che, per quanto difficile e delicata, possa giungere all'introduzione di una specifica figura di reato di pericolo il cui bene giuridico tutelato sia costituito al contempo dal corretto sviluppo della personalità del minore e dalla tutela della figura genitoriale e la cui sanzione sia fissata in limiti edittali capaci di far riflettere anche i genitori più riottosi.
Non che quanto sto prospettando sia semplice ma, certamente, è a mio avviso necessario.
D'altronde, se si considera che solo tredici anni orsono il legislatore è riuscito a “trasferire” gli abusi sessuali dalla sfera dei reati contro la morale nell'alveo dei reati contro la persona, mi chiedo quanto tempo ancora sarà necessario per maturare la consapevolezza di dover intervenire con la massima efficacia su di un aspetto di così ampia portata.
Di seguito, tratta dall'URL http://www.altalex.com/index.php?idnot=48508, riporto il testo letterale della sentenza da cui ha tratto spunto questo mio post.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 8 luglio 2009, n. 27995
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Agrigento - sezione di Canicattì -, con sentenza 22/3/2005, dichiarava L. F. colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p. (per avere eluso il provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento del figlio minore A., impedendo al padre, G. L., di tenerlo con sé nel periodo stabilito) e la assolveva dal reato di tentata violenza privata (per avere tentato di costringere il marito, con la minaccia di non fargli vedere il figlio, a corrispondergli l’assegno mensile stabilito in sede di separazione) perché il fatto non sussiste.
2 - La Corte d’Appello di Palermo, investita dai gravami dell’imputata e del P.G., con sentenza 23/11/2005, riformando in parte la decisione di primo grado, dichiarava la F. colpevole anche di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), cosi qualificata l’originaria imputazione ex artt. 56-610 c.p., unificava i due reati sotto il vincolo della continuazione, rideterminava la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, in giorni venti di reclusione, sostituiti con euro 760,00 di multa, e confermava nel resto la pronuncia impugnata.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando la violazione della legge penale e il vizio di motivazione: a) quanto al reato di cui all’art. 388 c.p., ha stigmatizzato lo scarso interesse del L. ad intrattenere rapporti significativi col figlio, tanto che quest’ultimo, a lei affidato, non aveva dimostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi, nel mese di ( …) dal suo ambiente abituale, sicché la scelta da lei fatta era stata determinata dalla sola ragione di evitare un trauma al bambino; b) quanto al reato di cui agli artt. 56-393 c.p., nessuna prova affidabile era stata acquisita.
Il ricorso non è fondato.
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
La seconda censura è assolutamente generica e non idonea a porre in crisi gli argomenti che il Giudice a quo ha posto a base del ritenuto reato di cui agli artt. 56-393 c.p., provato dalla precisa e attendibile testimonianza del L., destinatario della telefonata ricattatoria da parte della moglie, che, per indurlo a rispettare più puntualmente i suoi obblighi di natura economica, aveva minacciato di ostacolare in ogni modo gli incontri tra padre e figlio, circostanza quest’ultima che rappresenta - tra l’altro - una ulteriore conferma della fondatezza del primo capo d’accusa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali
mercoledì 4 novembre 2009
Finalmente prendo atto che qualcuno si ricorda di me.

Da sempre sono estremamente convinto che uno dei valori imprescindibili di una società degna di essere appellata "civile" sia il valore del rispetto nella sua più ampia accezione possibile.
Qalunque sia l'oggetto della discussione -sia essa politica, religiosa o sportiva- se come me si ritiene utile la logica del confronto si deve a mio avviso esser disposti al rispetto dell'opinione altrui. Io non mi sono mai sottratto al confronto ma, spesso, su determinati argomenti mi sono trovato di fronte interlocutori molto poco disposti non dico a sposare le mie posizioni -questo non l'ho mai preteso anche perchè, per quanto seguirà, capirete che niente è più lontano dal sottoscritto della logica dell'indottrinamento- ma, quanto meno, a dirsi disponibili a rispettare le mie idee.
Sto parlando delle tante volte che, con amici, colleghi e parenti vari mi sono trovato a disquisire circa la legittimità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
Prima di addentrarmi sulla questione, e perchè nessuno possa pensare che le mie convinzioni in materia siano frutto di un'educazione anticlericale, mi sembra doveroso premettere che il sottoscritto, battezzato “d'imperio” dopo tre mesi dalla nascita, è stato “incentivato” dai genitori a frequentare il classico corso di catechismo propedeutico al sacramento della comunione.

Io il corso lo frequentai per intero come tutti i miei compagni ma, non avendo compreso appieno gli insegnamenti -magari per limiti intellettivi miei o, forse, per scarsa chiarezza dei precettori- decisi di non fare la comunione.

Da allora sono passati quasi quarant'anni e oggi sono ateo.

Per quanto non abbia mai inteso “sbandierare” il mio ateismo la mia esperienza personale è che, ogni volta che si entra in argomento religioso e ci si dice atei, l'interlocutore -vivendo in Italia quasi sempre cattolico- si arrocca su posizioni tali da interpretare tale convinzione come un problema personale sul quale è inutile discutere ma, soprattutto, qualora generi interessi contrastanti con i propri, non degno di essere preso in considerazione.

Tornando a commentare quanto espresso dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in tema illiceità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche vi assicuro che, per quanto mi riguarda, non vivo la questione in termini né di stretto diritto né di mera rivalsa. Per me è molto di più.

Per me significa che anche la mia convinzione “areligiosa” è degna di quel rispetto che ho sempre richiesto limitandomi a rilevare come, a mio avviso, tutti gli alunni di qualunque religione ma anche gli atei, vanno nelle aule per studiare e, quindi, tutti hanno il diritto di esser rispettati non tanto trovando l'effige che caratterizza la propria fede ma, per rispetto di chi -purtroppo o per fortuna- non ha fede, non trovando alcuna effige.

Senza alcuna intenzione di commentare gli aspetti giuridici sottesi alla sentenza cui sopra ho accennato, non avendone per una volta nessun interesse, mi limito di seguito a riportare la nota redatta in argomento da Gesuele Bellini e tratta dal sito www.altalex.it all'URL http://www.altalex.com/index.php?idnot=10750


L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche comporta la violazione del dovere dello Stato di rispettare la neutralità nell'esercizio del servizio pubblico, in particolare nel campo dell'istruzione, violando il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto di scolari di credere o non credere.

Con queste conclusioni la Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, all’unanimità dei giudici componenti, nella decisione n. 30814/06, del 3 novembre 2009, ha condannato lo Stato Italiano per la violazione dell’art. 2, del protocollo n. 1, rivisto nel combinato disposto con l’art. 9, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La vicenda ha visto protagonista una mamma che ha intrapreso una lunga battaglia contro l’esposizione del crocefisso nell’aula scolastica frequentata dai propri figli.

L’interessata, impugnando la decisione della scuola di lasciare i crocifissi nelle aule, ha sostenuto, nei diversi gradi di giudizio, la violazione del principio di laicità, ma è sempre stata soccombente. La questione era giunta anche all’attenzione della Corte Costituzionale, sollevata dal TAR del Veneto, la quale, senza entrare nel merito si è dichiarata incompetente in quanto l’oggetto dell’impugnazione riguardava un regolamento scolastico, quindi, non avente la forza di legge e, pertanto, sottratto al giudizio della stessa Corte.

Ultima strada rimasta alla mamma è stata proprio il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo che ha deciso con la sentenza in argomento.

Il Governo italiano nel corso del giudizio si è difeso sostenendo che certamente la croce è un simbolo religioso ma ha anche altri significati, primo tra tutti quello etico, che comprende una serie di principi che possono essere condivisi al di fuori della fede cristiana, quale la non-violenza, la pari dignità di tutti gli esseri umani, la giustizia, l'importanza della libertà di scelta, la separazione della politica dalla religione, l'amore del prossimo e il perdono dei nemici.

Pertanto, ad avviso dello Stato Italiano, il messaggio di cui la croce era portatrice sarebbe un messaggio umanista, che può essere letto indipendentemente dalla sua dimensione religiosa, costituita da un insieme di principi e di valori che rappresentano la base delle nostre democrazie.

L’esposizione di un simbolo religioso nei luoghi pubblici, per il Governo, rientrerebbe nel margine di discrezionalità lasciato agli Stati in materia così complessa e delicata, strettamente legati alla cultura e alla storia.

La Corte ha, tuttavia, respinto queste argomentazioni.

Invero, i giudici europei, nel richiamare i principi giurisprudenziali in merito, hanno affermato che nelle funzioni che lo Stato assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento si deve tener conto del diritto dei genitori di rispettare le loro convinzioni religiose e filosofiche, occasione in cui la scuola non dovrebbe essere la scena di proselitismo o di predicazione, ma piuttosto un luogo di incontro di diverse religioni e convinzioni filosofiche, dove gli studenti possono conoscere i loro pensieri e le tradizioni.

Tali premesse, secondo la Corte, sono quelle che garantiscono il pieno rispetto del dovere di neutralità e imparzialità dello Stato, e, dunque sono incompatibili con qualsiasi potere discrezionale sulla legittimità delle credenze religiose.

La Corte, comunque non nega le affermazioni del Governo Italiano secondo cui la croce avrebbe altri valori, diversi da quello prettamente religioso, tuttavia, proprio quest’ultimo ha una particolare natura e il suo impatto sugli studenti sin dalla giovane età, soprattutto se bambini, può essere condizionante, costituendo una pressione su coloro che eventualmente non praticano tale religione o che aderiscono a un'altra religione.

In definitiva, la Corte ritiene che la presenza dei crocifissi nelle aule – che ha una pluralità di significati, tra cui rappresentare dei simboli in specifici contesti sociali e storici – è tuttavia predominante come simbolo religioso, che può anche essere incoraggiante per alcuni studenti credenti, ma diventare emotivamente inquietante per gli studenti di altre religioni o per coloro che non professano alcuna religione.

Per tali motivazione la Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso della mamma interessata, contestando al Governo Italiano la violazione dell’art. 2, del protocollo n.1, rivisto nel combinato disposto con l’art. 9, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e condannandolo al pagamento di un danno patrimoniale nella misura di euro 5000 da versare alla ricorrente entro tre mesi dalla presente decisione.”

martedì 29 settembre 2009

Tratto da www.pisanotizie.it

Licenziamenti, morti bianche e lavoro sommerso: tre emergenze da combattere

L'intervista di Pisanotizie agli Avvocati Giangiacomo Magni e Massimiliano Ferretti sugli effetti della crisi nei luoghi di lavoro e sulle possibilità dei lavoratori di difendersi legalmente

In queste settimane sono centinaia i lavoratori che in tutto il paese si sono mobilitati per non perdere il proprio posto, perchè gli effetti della crisi sono tanti e colpiscono aspetti diversi. Centinaia sono anche le cause legali che i lavoratori intraprendono per denunciare i comportamenti dei propri datori di lavoro e i licenziamenti senza giusta causa. Pisanotizie ha intervistato gli avvocati Giangiacomo Magni e Massimiliano Ferretti per capire come e se la crisi ha prodotto dei mutamenti anche su questo piano, a partire dalla loro concreta esperienza sul campo nelle province di Pisa e Livorno.

Dal vostro punto di osservazione quali sono i principali effetti che questa crisi sta determinando?

Avv. Ferretti: Il primo riflesso della crisi nei nostri territori si riscontra sicuramente sui livelli occupazionali con molte realtà industriali che chiudono, si trasferiscono o riconvertono la propria attività.
E' come se si fosse fatto un ulteriore passo indietro. Prima il tema di maggiore attualità, ed anche di lavoro per noi, era il precariato: il lavoro c'era ed era precario. La maggior parte delle cause riguardavano la difesa di specifici diritti che non venivano riconosciuti, per cui si trattava di verificare la situazione formale del rapporto di lavoro per poi capire se, dal punto di vista sostanziale, alcuni diritti fossero rispettati o meno. Ora il problema è quello di mantenere il posto di lavoro, cercando di preservare anche queste forme di contratto. Tanti sono i lavoratori che, per quanto precari, hanno avuto accesso al credito ed ora, perso il lavoro, si trovano nell'impossibilità di far fronte al pagamento delle rate dei mutui. Non si tratta più di tutelare i lavoratori in relazione a singoli aspetti contrattuali ma, piuttosto, di valutare la reale sussistenza o meno delle motivazioni che le aziende adducono per giustificare i licenziamenti ossia, se vi sia in concreto e realmente per l'imprenditore la necessità di prendere tali tipi di provvedimento.

C'è qualcuno che approfitta della crisi per procedere a delle riorganizzazioni aziendali?

Avv. Magni: Entrare in questo campo non è semplice. La crisi ha certamente inciso tanto, ma in alcuni casi abbiamo avuto modo di vedere processi di riorganizzazione aziendale poco chiari. Una cosa, però, è certa: il ricorso alla cassa integrazione straordinaria ed alla mobilità nell'ultimo periodo è stato veramente massiccio. Si tratta di procedure rispetto alle quali non è facile vigilare. Inoltre uno strumento come la cassa integrazione non è esteso a tutte le aziende, ed abbiamo registrato resistenze per attivare la cassa integrazione in deroga.

Tutto è reso poi più difficile dai forti processi di esternalizzazione realizzati dalle imprese, che così hanno parcellizzato il lavoro creando vere e proprie reti societarie. In questo contesto di vessazione già difficile per i precari, la crisi è stata anche usata come pretesto per intervenire ulteriormente: si sgretola l'organizzazione aziendale per avere un sistema di società controllate, con meno di 15 dipendenti, a cui revocare a piacimento e a seconda delle convenienze gli appalti. Questo ha degli effetti devastanti sulla stabilità del lavoro, ma diventa sempre più complesso anche risalire all'azienda madre e dimostrare che è questa la responsabile, ad esempio, di un procedimento illegittimo di licenziamento.

Avete quindi numerose cause di licenziamento?

Avv. Magni: Assolutamente si. Sono numerose le cause per la perdita del posto di lavoro. Ma non solo, assistiamo anche ad altri fenomeni. Nel mondo delle cooperative, al posto di procedere al licenziamento, i lavoratori vengono lasciati direttamente a casa, comunicando verbalmente la sospensione del rapporto per carenza di lavoro.

La cooperativa non ha neanche lo scrupolo di intimare per iscritto questa sospensione. Naturalmente la questione del lavoro nelle cooperative è un tema complesso e particolare, in quanto il rapporto di lavoro si inserisce sul rapporto sociale. Vi sono degli specifici regolamenti che prevedono la sospensione ma nella loro applicazione concreta non sono rispettati.

Qual è l'esito di queste cause?

Avv. Ferretti: Al riguardo c'è da rilevare che con la crisi si sta diffondendo un fenomeno particolarmente pesante. Le cause per un licenziamento illegittimo si riescono a vincere con sentenze anche molto favorevoli. Ma qui sorge il problema in quanto non si riesce a far eseguire la sentenza perchè l'azienda non ha più nulla. Ciò avviene spesso nel caso in cui siano coinvolte le cooperative. Abbiamo diverse cause vinte a livello civile, ma inapplicate in quanto la controparte è insolvente. E con gli strumenti attuali al lavoratore non resta che incorniciare al muro la sentenza.

Questo è un pesante disincentivo per i lavoratori ad avviare una causa.....

Avv. Ferretti: Certo che lo è, si tratta di una vittoria di Pirro. Il problema è che questo non è l'unico disincentivo. Se analizziamo il funzionamento della macchina della giustizia la situazione è ancora peggiore.
Per avere una sentenza di primo grado per un ricorso di lavoro occorrono in media 2 anni e mezzo. Per cui, se ipotizziamo che una causa inizia il primo gennaio 2010, si arriva al 30 giugno 2013. Se si va in appello, l'udienza in genere è fissata tre anni dopo e se il procedimento continua fino alla cassazione ci vogliono altri due anni e mezzo. Per cui per arrivare al termine di tutti e 3 i gradi di giudizio passano tra gli 8 ed i 10 anni. Si tratta di tempi lunghissimi e la causa principale di ciò è la carenza di magistrati, anche se talvolta, gli stessi magistrati, ai quali sono umanamente solidale per l'enorme mole di lavoro che svolgono, danno dei rinvii ingiustificati ed ingiustificabili.

Chi trae vantaggio da questa lentezza?

Avv. Magni: Indubbiamente il datore di lavoro, che ritiene più conveniente far andare le cose per le lunghe e rinviare il risarcimento il più lontano possibile, sperando che col passare degli anni intervengano altri fattori.

Comunque occorre tener presente che nel caso di un licenziamento senza giusta causa e dell'obbligo di reintegro da parte dell'azienda, quest'ultima può sottrarsi da questo obbligo. Mi è capitato il caso di un lavoratore che ha ottenuto il reintegro, e l'azienda non l'ha fatto rientrare in servizio, tenendolo fuori dallo stabilimento al minimo dello stipendio.

Recentemente sulla stampa è stato riportato il caso di un lavoratore della Saint-Gobain deceduto a causa di un incidente sul lavoro. A distanza di tre anni ancora non si era svolta neppure la prima udienza. Come è possibile che ciò avvenga?

Avv. Ferretti: In questo caso ci spostiamo sul penale, e qui il codice stabilisce dei tempi ben precisi per cui le indagini non possono protrarsi complessivamente più di 18 mesi. Dopo questo arco temporale o si chiede l'archiviazione o il rinvio a giudizio. In questo caso specifico occorrerebbe capire perchè, dopo i 18 mesi per le indagini preliminari, il fascicolo è rimasto sul tavolo del Pm per un altro anno e mezzo. La ragione più probabile, anche in questoi caso, è la mole di lavoro che ogni Pm deve smaltire. Bisogna anche tenere conto del modo con cui viene organizzato il lavoro. Infatti non si tiene in considerazione solo la gravità del fatto ma occorre pensare anche alla prescrizione. Carichi di lavoro, tempi della prescrizione, mancanza di mezzi determinano ritardi comunque difficili da comprendere.

La questione delle morti bianche in Italia è una vera piaga....

Avv. Magni: Per quanto riguarda la questione della sicurezza sui luoghi di lavori il lavoratore è l'ultimo anello della catena. Recentemente mi è capitato un episodio per cui un lavoratore che ha subito un danno come l'amputazione di un dito, si vede invece sottoposto ad un procedimento penale, in quanto non avrebbe rispettato le norme di sicurezza. In questo caso dovremo dimostrare che il macchinario su cui stava lavorando quell'operaio non era a norma e quindi la responsabilità è dell'azienda. In questi casi è fondamentale da parte di chi è addetto ai controlli fare una fotografia corretta e tempestiva di come si è reso possibile il verificarsi di quell'avvenimento. In questo caso, a detta del lavoratore, il macchinario su cui lavorava non era dotato dei presidi anti-infortunistici previsti, mentre chi è venuto il giorno dopo a controllare ha trovato tutto in regola. Serve quindi tempestività e correttezza nel fare questa delicata opera di verifica.

Altro tema ancora differente e forse più complesso è quello del lavoro nero?

Avv. Magni: Fino a qui abbiamo parlato di vicende che riguardano lavoratori regolarmente assunti. Se consideriamo un fenomeno come quello del lavoro sommerso gli infortuni non vengono neanche denunciati e comunque riuscire a dimostrare come sono andate le cose è ancora più complesso: non è semplice trovare testimoni in queste contesti. C'è un indubbio problema di controlli che dovrebbero essere più numerosi e approfonditi. Servirebbero degli investimenti in questo settore al fine di creare le condizioni per cui non conviene più stare in una situazione di irregolarità. Oggi non è così.

Un capitolo a parte poi meriterebbe il lavoro migrante...

Avv. Ferretti: Molto spesso mi sono trovato a difendere in sede penale migranti espulsi in quanto clandestini e/o irregolari . Nelle domande preliminari al processo mi è capitato di sentire chiedere all'imputato le generalità e l'attività svolta. A quest'ultima domanda moltissimi migranti rispondono di lavorare seppure al nero. Ciò che viene scritto è: "in cerca di occupazione". Si decide quindi di non approfondire e di non avviare dei controlli. Invece ogni volta che un giudice si trova di fronte a questa situazione dovrebbe chiedere per quale ditta quel migrante lavora ed avviare delle indagini. Così gli strumenti del controllo del lavoro sommerso diventerebbero efficaci, con conseguente disincentivo a condurre l'attività di una azienda in modo irregolare sfruttando chi non può permettersi, magari solo per ragioni formali connesse alla regolare o meno presenza sul territorio dello Stato, di tutelare i propri diritti.