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mercoledì 1 dicembre 2010
Svolgendo la quotidiana opera di aggiornamento professionale che mi impone la lettura delle più recenti sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione ho avuto modo di esaminare la sentenza n°23835 pronunciata dalla Terza Sezione Civile della Suprema Corte il 21 ottobre scorso.
Premetto che, pur trattandosi di sentenza pronunciata in sede civile, ritengo che la stessa possa costituire utile spunto di riflessione soprattutto per coloro che, a vario titolo, si trovino implicati in procedimenti penali.
La pronuncia sopra richiamata infatti, pur attenendo a questioni civili connesse al legittimo esercizio del diritto di cronaca ed al parimenti doveroso diritto di replica, prende spunto dall'annosa questione inerente la pubblicazione di notizie giudiziarie allorchè il procedimento penale di riferimento si trovi ancora nella fase delle indagini preliminari e la successiva mancanza di tutela “mediatica” del soggetto allorchè il successivo esito del giudizio dovesse essere per lui favorevole.
Nel caso specifico era stata pubblicata la notizia secondo cui taluno era accusato di tentata corruzione ma, successivamente, gli si era negato il diritto di replica non dando corso alla sua richiesta di pubblicazione della notizia dell'avvenuta archiviazione del procedimento.
Pur dovendosi sottolineare che la sentenza della Corte di Cassazione che mi accingo a pubblicare ha sancito il diritto del cittadino a vedersi riconosciuto il diritto di replica, si deve riflettere sulla portata e l'utilità concreta di un simile diritto che, a mio avviso, risulta particolarmente sfuggente.
In primo luogo, per chiarire le ragioni della mia perplessità, si deve dar conto di quanto accade nella realtà dei fatti per come ho avuto modo di sperimentare esercitando la mia attività soprattutto in sede penale.
Per esperienza posso dire senza tema di smentita che, soprattutto in una piccola città, la pubblicazione della notizia circa la pendenza a carico di una determinata persona di un procedimento penale di particolare gravità non può che avere conseguenze devastanti sicuramente a livello personale, quasi sempre a livello familiare e che, qualche volta, coinvolgono anche la sfera lavorativa.
Immaginiamoci una persona accusata di aver compiuto abusi sessuali in una piccola cittadina.
In quel caso, ovviamente, la notizia sarebbe pubblicata con ampio risalto sui quotidiani locali e, altrettanto ovviamente non potrebbe che provocare fastidiosissimi danni alla vita di relazione dell'allora indagato con implicazioni anche sul suo luogo di lavoro.
Qualora la vicenda processuale, protrattasi magari per anni, dovesse concludersi con un'archiviazione o un'assoluzione senza che quest'ulteriore notizia fosse pubblicata si potrebbe rivendicare l'esercizio di quel diritto di replica di cui tratta la Corte di Cassazione anche se, a mio parere, il tutto non potrebbe sicuramente riparare alla “gogna mediatica” presofferta.
Mi spiego meglio, a mio avviso l'esercizio di tale diritto già così per come è disciplinato dalla legge non può certo definirsi quale utile strumento di tutela “riparatoria” a fronte del danno conseguito alla preventiva pubblicazione di determinate notizie.
A questo proposito, infatti, l'art. 8 Legge 8 febbraio 1948 n°47 prevede quanto appresso:”Il direttore o, comunque il responsabile della pubblicazione è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche... sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono.
Per i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce.
Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate...” .
Dalla lettura della norma appena richiamata quindi si desume che l'esercizio di tale diritto, anche ove concesso, si concreta nella pubblicazione di 30 (trenta) righe che abbiano le medesime caratteristiche tipografiche dell'articolo cui la persona intende replicare.
Già da questo sorge spontanea una domanda: può ritenersi efficace il diritto di replica concentrato in trenta righe scritte con carattere “Times New Roman” grandezza 8 pubblicate a tre/cinque anni dall'avvenuta pubblicazione per più giorni di articoli che hanno riempito intere pagine di giornale con tanto di titoli scritti con carattere “Times new Roman” grandezza 28, evidenziati in grassetto e riportati nella “civetta” posta di fronte alle edicole? Francamente credo di no.
Intendiamoci il problema di cui parlo non è di semplice soluzione tant'è vero che io per primo visto il lavoro che faccio sono soggetto ad una sorta di “sdoppiamento della personalità” in cui da un lato sono un semplice cittadino che, confidando nell'attività della Magistratura, pretende che gli si garantisca il diritto ad essere informato senza dover attendere i tempi spesso “biblici” di compimento delle indagini preliminari e, dall'altro, sono un avvocato che ogni volta che trapelano notizie in palese violazione del segreto istruttorio nell'ambito dei procedimenti sui quali è chiamato ad operare si irrita non poco dal momento che, totalmente all'oscuro di ogni risultanza acquisita dagli inquirenti, è costretto ad uscirsene con frasi di circostanza quali “Prima di potermi esprimere ho necessità di esaminare compiutamente gli atti”; “ Attualmente mi sembra prematuro esprimemi su una vicenda che, per forza di cose, non conosco”; “Io ed il mio assistito attendiamo con fiducia che i Magistrati compiano tutte le verifiche del caso” etc. etc.
A questo punto credo di poter dire che il problema, ben lungi dall'essere di carattere strettamente giuridico, sia soprattutto culturale e professionale per cui la soluzione deve esser ricercata al di fuori delle aule dei tribunali.
In questo senso si deve a mio avviso prendere atto che i lettori sono molto più interessati alle disgrazie piuttosto che ai successi altrui e, seguendo questa logica, i giornali ed i giornalisti rischiano sovente di uniformarsi a tale dato di fatto ritenendo anch'essi del tutto privo di interesse l'aspetto connesso alle vicende umane vissute da chi, suo malgrado, si è trovato a doversi difendere da imputazioni particolarmente infamanti.
Da quanto appena detto non può che conseguirne che, ove si ritenga condivisibile il contesto che ho descritto, non resta che ammettere il diritto all'informazione ed il diritto di difesa in caso di errori giudiziari possono bilanciarsi soltanto attraverso un'operazione culturale che tenda a riportare al centro delle cose la Persona. In altri termini, è il Giornalista (la maiuscola si badi bene non è un caso) che ogni volta può fare la differenza non limitandosi a concedere il diritto di replica ma, piuttosto, dimostrando di esser consapevole dell'enorme impatto del suo lavoro sulle vite altrui, essendo disposto ad ascoltare e pubblicare di sua iniziativa articoli veri e propri che possano consentire ai loro interlocutori di riacquisire la giusta dignità agli occhi dei lettori.
Di seguito, tratta dal sito all'URL http://www.altalex.com/index.php?idstr=11&idnot=12471, provvedo a pubblicare la pronucia della Corte di Cassazione dalla quale hanno tratto spunto i miei pensieri.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 24 novembre 2010, n. 23835
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1986, depositata il 28 giugno 2005, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Napoli, la quale ha respinto la domanda proposta da T.F., in proprio e quale rappresentante legale della s.r.l. Casa di cura Ospedale internazionale, contro C.M. G., S.E., e la s.p.a. Editoriale L'Espresso - rispettivamente autrice, direttore responsabile ed editrice del quotidiano **** - per ottenere il risarcimento dei danni a seguito della pubblicazione sul medesimo quotidiano di due articoli, l'uno in data **** e l'altro il ****, ritenuti diffamatori.
Il T. propone tre motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.
Resistono gli intimati con controricorso.
Motivi della decisione
1.- Conviene richiamare preliminarmente i fatti che hanno dato origine alla controversia.
Il 2 aprile 1993 il GIP presso il Tribunale di Napoli ha disposto la custodia cautelare in carcere del Dott. T.F., direttore della s.r.l. Casa di cura Ospedale internazionale, con l'accusa - formulata dal commissario straordinario della USL ****, Ca.
V. - di avere offerto a quest'ultimo la somma di L. 500 milioni per indurlo a non proporre appello contro un lodo arbitrale che ha condannato la USL a pagare alla Casa di cura L. 5 miliardi e mezzo, in rimborso di spese erogate agli assistiti.
Il **** il quotidiano ****, ha pubblicato un articolo a firma di C.S., dal titolo "Cade nella rete ex manager USL", ove il T. era indicato come uno dei due pentiti che avevano incastrato il funzionario.
Il giorno successivo altro articolo dal titolo "La truffa dei posti letto" riprendeva la vicenda, dicendo fra l'altro che "per non fare appellare il manager Ca. contro la sentenza il proprietario della clinica avrebbe offerto all'amministratore una mazzetta da 500 milioni, e che "quelli della Clinica cercavano di farsi pagare i ricoveri convenzionati per un numero di posti letto maggiore" rispetto a quelli di cui disponevano.
Nel settembre successivo il Ca. è stato arrestato con l'imputazione di concussione ai danni del T. ed il procedimento a carico di quest'ultimo è stato archiviato.
Rimasta senza esito la domanda di rettifica degli articoli già pubblicati, il T., in proprio e quale rappresentante della Casa di cura, ha chiesto il risarcimento dei danni per diffamazione e per mancata pubblicazione della rettifica, assumendo che, a seguito delle vicende di cui sopra, i funzionari della USL non hanno rinnovato la convenzione con la Clinica e questa ha visto ridotta la sua clientela, con rilevante calo del fatturato.
La Corte di appello ha motivato il rigetto delle domande con il fatto che, essendovi un interesse pubblico alla narrazione della vicenda, la pubblicazione era giustificata dal diritto di cronaca; che l'articolista si è attenuta alla verità dei fatti, così come essi all'epoca si presentavano, e che non ha trasceso la forma civile dell'esposizione.
Ha ritenuto giustificata anche la mancata rettifica, con la motivazione che i convenuti non erano obbligati a procedervi, poichè le pubblicazioni che si chiedeva di rettificare erano lecitamente avvenute.
2.- E' logicamente pregiudiziale l'esame del secondo e del terzo motivo, con cui il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2043 c.c., e art. 597 c.p., nonchè illogica e insufficiente motivazione, sul rilievo che - contrariamente a quanto ha ritenuto la sentenza impugnata - l'autrice dell'articolo ha imputato alla Clinica un fatto falso, cioè il ricevere - di pazienti oltre il numero dei letti disponibili ed il pagamento di rette di degenza relative a posti letto inesistenti, trascurando il fatto che le eccezioni sollevate dalla USL nel giudizio arbitrale concernevano posti letto effettivamente esistenti, ma non aventi diritto al rimborso perchè non convenzionati. Le pubblicazioni, pertanto, avevano imputato alla Casa di cura un comportamento disonesto e truffaldino, mentre la vertenza reale concerneva un mero illecito civile. Lamenta ancora che il titolo dell'articolo del 6 aprile "La truffa dei posti letto", è espressione tendenziosa, suggestiva e non rispondente ai principi di continenza espositiva.
2.1.- I due motivi sono inammissibili.
Essi attengono all'interpretazione del contenuto delle pubblicazioni ed alla valutazione della loro portata offensiva, questioni la cui delibazione è riservata alla discrezionalità della Corte di merito, la quale ha congruamente e logicamente motivato la sua decisione, tenendo conto dell'intero contenuto degli articoli, non solo delle frasi riportate nel ricorso.
Ha ritenuto che da essi si potesse chiaramente desumere che la controversia non riguardava posti letto inesistenti, poichè l'articolo del 6 aprile specificava trattarsi del pagamento "delle rette di degenza contestate, in quanto eccedenti il limite del convenzionamento". Ha specificato che gli illeciti facevano capo solo all'allegra gestione della USL; mai ha parlato di vendita di posti letto inesistenti o di mercato dei posti letto, ed ha prospettato l'ipotesi che le vicende processuali evolvessero verso una fattispecie di concussione anzichè di corruzione.
Ha perciò concluso - con valutazione congruamente e logicamente motivata - che l'intitolazione (indubbiamente forte) del secondo articolo non poteva essere riferita a comportamenti del T. e della Clinica, ma solo a quelli del responsabile della USL. Nè il ricorrente ha posto in evidenza altre frasi contenute negli artìcoli, idonee a dimostrare l'illogicità o l'insufficienza della suddetta motivazione.
3.- Il primo motivo, deducendo violazione della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 8, sulla stampa e art. 2043 c.c., lamenta che la Corte di appello abbia assolto i convenuti anche dall'addebito di non avere pubblicato la rettifica delle precedenti notizie, dopo l'archiviazione del procedimento per corruzione a suo carico, e censura la motivazione della Corte secondo cui, essendo risultata lecita la pubblicazione, non vi era ragione di accogliere la domanda di rettifica.
Afferma il ricorrente che la rettifica ha la funzione di consentire all'interessato una replica e costituisce oggetto di un diritto potestativo che spetta a chiunque si ritenga diffamato.
3.1.- Il motivo è fondato.
La L. n. 47 del 1948, art. 8, sulla stampa - così come modificato dalla L. 5 agosto 1981, n. 416, art. 42, - impone al responsabile del periodico di pubblicare gratuitamente le rettifiche dei soggetti "ai quali siano stati attribuiti atti....da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purchè...le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale", e sempre che siano contenute entro dati limiti di spazio.
Si tratta di un diritto che la legge attribuisce all'interessato di vedere ristabilita la verità dei fatti qualora, tramite la stampa, gli siano attribuiti comportamenti, o lo si coinvolga in vicende pubbliche o personali, in termini difformi dalla realtà o che egli ritenga lesivi dell'onore, della reputazione od anche solo dell'identità personale.
L'attuazione di un tale diritto non è rimessa alla discrezionale valutazione del direttore del mezzo, ma deve avere corso, tramite la pubblicazione della rettifica, in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti con i soli limiti stabiliti dalla legge stessa (contenuto non penalmente illecito della rettifica; non eccedenza dai limiti di spazio di cui alla L. n. 416 cit., art. 8, comma 4) (cfr. Cass. civ. Sez. 3^, 24 aprile 2008 n. 10690).
Nella specie è indubbio che l'imputazione di corruzione sia oggettivamente lesiva della dignità della persona e che tale venga giustificatamente ritenuta dall'interessato.
E' altresì indubbio che, all'esito delle indagini, l'addebito di concussione al T. - riportato dal quotidiano La Repubblica nell'aprile precedente - è risultato non rispondente al vero, pur se lecitamente pubblicato in precedenza, sulla base delle conoscenze acquisite a quella data.
Ricorrevano quindi gli estremi previsti dalla legge per poter formulare la richiesta di rettifica, che il direttore del periodico era tenuto ad accogliere, salvo che avesse dimostrato il ricorrere di alcuna delle circostanze in presenza delle quali la legge autorizza a non dare corso alla domanda.
La circostanza menzionata dalla sentenza impugnata, cioè la liceità della pubblicazione della notizia, è irrilevante, nei casi in cui le notizie pubblicate risultino successivamente non veritiere, come nel caso di specie.
Vale a dire, allorchè la liceità si ricolleghi non alla verità oggettiva della notizia, ma a quanto di tale verità emerge alla data della pubblicazione (c.d. verità putativa), in forza della scriminante del diritto di cronaca, detta liceità non può considerarsi di ostacolo al diritto dell'interessato di ristabilire, tramite la rettifica, l'effettiva realtà delle cose che sia stata successivamente accertata.
Al contrario, proprio il fatto che l'esercizio del diritto di cronaca può autorizzare la pubblicazione di vicende di cui non sia stata ancora accertata la completa corrispondenza al vero, impone di dare la più ampia possibilità di espressione al diritto di rettifica dell'interessato, affinchè l'interesse pubblico alla conoscenza immediata dei fatti non venga a sacrificare ingiustificatamente ed oltre misura l'interesse individuale a che siano pubblicate solo le notizie incontestabilmente accertate come vere.
L'eccezione dei resistenti secondo cui il motivo di ricorso sarebbe irrilevante perchè inidoneo ad influire sul dispositivo della sentenza impugnata deve essere disattesa.
Non si può a priori escludere, infatti, che la tempestiva pubblicazione della rettifica avrebbe potuto limitare i danni conseguenti all'iniziale pubblicazione, e gli odierni ricorrenti hanno dedotto il fatto fra le premesse idonee a giustificare la loro richiesta di risarcimento.
5.- In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, affinchè decida la controversia uniformandosi ai seguenti principi di diritto:
"La L. n. 47 del 1948, art. 8, sulla stampa, così come modificato dalla L. 5 agosto 1981, n. 416, art. 42, attribuisce al soggetto il diritto di rettifica delle notizie pubblicate sui mezzi di informazione, in tutti i casi in cui si tratti di notizie non vere o che l'interessato ritenga lesive dei propri diritti all'onore, alla reputazione o all'identità personale.
L'attuazione del diritto alla rettifica non è rimessa alla discrezionale valutazione del direttore del mezzo di informazione, ma deve avere corso in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti, con i soli limiti stabiliti dalla legge stessa.
"L'accertata liceità della pubblicazione della notizia di cui si chiede la rettifica - trattandosi di notizia rispondente alle conoscenze acquisite fino a quel momento e ricorrendo gli estremi del diritto di cronaca - non fa venir meno l'obbligo di pubblicare la rettifica dell'interessato, qualora la relativa domanda sia diretta a far valere l'avvenuto accertamento dei fatti in termini diversi da quelli in precedenza pubblicati, dovendo la verità reale prevalere sulla verità putativa". 6.- Il giudice di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

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